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 Artigiani, maestri d'ascia e lavori "manuali"

 
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  Non fa rumore la morte dell'artigianato artistico
 
 

Marche L' arte perduta delle botteghe Giampaolo Visetti 20 gennaio 2009

   
   
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

Dedichiamo questa pagina a riflessioni e citazioni su: artigiani, maestri d'ascia e in generale ai quelli che svolgono i mestieri a torto definiti "manuali". 

L'AMACA

MICHELE SERRA

Anteporre una buona scuola professionale a una mediocre e tardiva laurea, come ha fatto il viceministro Martone, significa affrontare un tabù. Nella tradizione classista del nostro Paese, le scuole professionali e i lavori manuali sono considerati da sempre lo sbocco naturale dei figli dei poveri; la laurea, il dovuto approdo dei figli dei ricchi. E dunque, quel politico che faccia l'elogio delle scuole professionali rischia di passare per un reazionario che non vuole aprire a tutti le porte dell'università.

Ma io credo che Martone alludesse a un'altra verità, tutt'altro che reazionaria: tra un "dottore" dequalificato e mal pagato e un artigiano che sa il fatto suo, chi se la passa meglio? La destrezza manuale è, tra l'altro, cultura essa stessa, specie in un Paese di artigiani e tecnici sopraffini quale siamo da qualche secolo. Il disprezzo per il lavoro manuale in quanto tale, e per scuole professionali a volte ben più brillanti e funzionali di certi deprimenti atenei, è uno dei veri grandi problemi dei nostri figli. Convinti, anche per colpa nostra, che un dottorato a prescindere valga un'autorevolezza sociale che solo il lavoro (anche manuale) è invece in grado di dare. Una società di piccolo-borghesi frustrati non è affatto migliore di una società di artigiani e operai realizzati.

 

Da La repubblica 25 1 2011


 

Segnalo una interessante trasmissione di rai radio 3 del 28 12 2010, (che si può riascoltare in podcast e scaricare) sul tema dei cosiddetti lavori manuali contrapposti alle varie lauree.

Si parla sempre più frequentemente della "bellezza" del lavorare manualmente, sospinti più che altro dall'inutilità della laurea e dalla impellente necessità di trovare un qualsivoglia artigiano ancora in attività. La realtà è che le code si formano solo alle segreterie delle Università e non per cercare lavoro dagli artigiani. Ancor'oggi, come dice Zecchi "Un figlio di un avvocato, se decide di fare il fabbro, crea disperazione in famiglia."

 

La disoccupazione? Colpa dei genitori

Stefano Zecchi da Il giornale 28 12 2010

 

Bei tempi quando il famoso «pezzo di carta» dava il diritto ad entrare tra la gente che conta! Un lavoro importante, un bello stipendio: per molti era il biglietto da visita dell’emancipazione sociale oppure la conferma di appartenere alla classe dirigente della nazione. Era un altro mondo. Brutta cosa avere nostalgia del passato, ma quando lo sguardo all’indietro spiega un percorso sbagliato, la nostalgia si prende la rivincita.
Cosa si è sbagliato? Ma, intanto, perché si è sbagliato?
Nella media europea l’Italia ha pochi laureati e molti disoccupati laureati. Senza scomodare ancora le statistiche, è invece sotto gli occhi di tutti l’assenza di artigiani qualificati. In questi ultimi cinquant’anni, abbiamo avuto un grande sviluppo di impiego «astratto» e una perdita secca di lavoro «manuale». È il risultato di una visione culturale messa in atto dalla politica più vicina all’idea che lo sviluppo egualitario della società fosse la scelta giusta da perseguire attraverso lo studio universitario. La laurea diventa così, per molti genitori di umili origini, l’obiettivo che i propri figli avrebbero dovuto raggiungere per riscattare la povertà famigliare. 
Quante volte nei miei anni di insegnamento mi sono sentito dire: «Abbiamo fatto tanti sacrifici che lei neppure se lo immagina, professore, per far studiare nostro figlio. E adesso che si è laureato - l’ha laureato lei, si ricorda? - è disoccupato da più di un anno. Ci aiuti: cosa dobbiamo fare?». E io non posso farci, purtroppo, niente.
Quella divisione sociale, che certa politica di sinistra pensava di superare facendo tutti dottori, non soltanto non è stata superata, ma è diventata molto più crudele di un tempo. Adesso abbiamo laureati, avvocati, ingegneri, architetti, che hanno buoni guadagni perché lavorano nello studio del padre; e poi abbiamo il gran numero di laureati disoccupati semplicemente perché sono figli di nessuno, di nessun professionista. Sono senza lavoro e, per di più, frustrati, delusi: forse ancor più delusi e frustrati i genitori rispetto ai figli con quel «pezzo di carta» che è costato tanto e che non serve a niente. Ovvio, la regola ha le sue eccezioni: per fortuna e per bravura c’è ancora chi, pur figlio di nessuno, riesce ad aprirsi la strada. Ma è una piccola minoranza.
D’altra parte, cosa dovrei dire a quei genitori sconsolati, talvolta - vi assicuro - disperati, che vengono a chiedermi aiuto? Dovrei spiegare che le lauree universitarie sono cose per disoccupati, quando nell’università sorgono come funghi le più allettanti (in apparenza) «offerte formative», che prevedono i più impensabili, fantasiosi e assolutamente inutili corsi accademici come, per esempio, quello sul «benessere dei cani e dei gatti» (giuro che è così)?
Il ministro della Pubblica istruzione sta facendo un po’ di repulisti in questi corsi di laurea velleitari che, comunque, non si dimentichi, non sono sorti per colpa di un destino cinico e baro, ma dalla testa dell’ex ministro della Pubblica istruzione, Luigi Berlinguer.
Finalmente, quello che con franchezza non riesce a dire il professore, lo dice adesso il ministro Sacconi. È stata sistematicamente distrutta la cultura del lavoro; è stato umiliato il lavoro dell’artigiano, quasi fosse un’attività per deficienti e, di conseguenza, è stata costruita un’impalcatura scolastica con cui si è azzerato il valore dello studio che preparava alla professione dell’artigiano. Politica e sindacato hanno meticolosamente costruito l’idea che il diritto allo studio fosse il diritto a laurearsi. Ottima la convinzione che la laurea diventasse un obiettivo per chiunque, ma deleteria la comunicazione sottostante a quella convinzione, e cioè che soltanto i laureati avrebbero potuto avere un lavoro dignitoso.Naturalmente in questa trappola ideologica ci sono caduti per primi i genitori più sprovveduti, proprio quelli che più andavano difesi. I genitori, cioè, che sognavano per i propri figli una vita migliore della loro, proprio grazie al «pezzo di carta». Ma non soltanto loro sono stati ingannati dall’idea che solo la laurea potesse rappresentare un dignitoso punto d’arrivo scolastico per i propri figli.
Va cambiata una mentalità; solo una cultura politica che restituisca significato e valore sociale al lavoro artigianale può modificare quella mentalità. I genitori, a cui sta a cuore la sorte dei propri figli, devono essere aiutati a capire, attraverso iniziative politiche e sindacali nel mondo della scuola e del lavoro, che il «pezzo di carta» è oggi, sempre più spesso, un qualunque pezzo di carta.
 

Link alla trasmissione: Tutta la città ne parla di Rai 3


 

 

 

Artigiani a rischio estinzione, Il Venezia, 21 gennaio 2008

 


 

Il letto di ciliegio che allunga le nozze

di Mauro Corona

da La repubblica 27 gennaio 2008

 

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Il maestro d'ascia e la danza del legno

di Paolo Rumiz

La repubblica, 27 gennaio 2008

 

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  Aggiungo alcune mie riflessioni su questo tema, che mi è sempre stato molto a cuore, inserite in conclusione del libro Maestri d'ascia. Costruire barche a Venezia, edito da Marsilio:

Questo mondo [dei cantieri tradizionali] si è dissolto per parecchi motivi, il primo molto banale: si può guadagnare di più con molta meno fatica, meno rischi e problematiche. Per esempio affittando il cantiere per farne un deposito o un rimessaggio di imbarcazioni. 

Secondo: forte riduzione della quantità e della qualità della richiesta, i pochi che vogliono ancora una barca di legno per lavoro o sono dei nostalgici o chiedono solo quanto costa.

Terzo: aumento esponenziale degli oneri e delle prescrizioni, fiscali, ambientali, di sicurezza ecc. Quello che prima si faceva in modo ruspante, da soli, ora richiede almeno una segretaria, un commercialista, un addetto alle paghe e non di rado un avvocato, un architetto, un addetto alla sicurezza. È poi difficile spiegare al padrone di una barca che solo la minima parte del costo finale, è dato dal materiale e dal lavoro, mentre tutto il resto è rappresentato da oneri aggiuntivi.

Quarto: difficoltà a trovare allievi ed aiutanti; nonostante la tanto enfatizzata disoccupazione giovanile, non se ne trova uno disposto a rimboccarsi le maniche. Non solo, ma le giuste tutele che hanno ottenuto i lavoratori dipendenti, rendono in sostanza impossibile il lungo apprendistato necessario a diventare un carpentiere “finito”.

L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma i motivi brevemente accennati sono per i più ampiamente sufficienti per gettare la spugna.

Non si tratta, però, solo di ragioni economiche, lo squerariolo abbandona anche perché non sente di avere più quella considerazione e quel prestigio di cui godeva. E non si riconosce più in un mondo sgangherato dove non vince il più abile, il migliore, ma il mediocre che, però, gode degli agganci giusti.

Ora ci sono solo “posti di lavoro” dove non è richiesta una qualche speciale abilità e dove si può imbozzolarsi al riparo da ogni critica; mentre i mestieri si basano essenzialmente sulla passione, sulla continua tensione al miglioramento, al gusto della personalizzazione delle proprie creature che rimangono tali, come i figli, anche dopo essere state consegnate (non vendute) al committente. 

GP 2005


 

   
: penzo.gilberto