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SE STEVE JOBS FOSSE NATO IN ITALIA

di ALESSANDRO PENATI da La Repubblica dell’8 ottobre 2011

IL MONDO onora la memoria del visionario che ha cambiato il nostro modo di comunicare. Colui che ha saputo coniugare crescita, innovazione, successo economico, tecnologia, carisma personale e qualità dei prodotti. Ma qui vorrei ricordare Steve Jobs come emblema di quello che è, può e dovrebbe essere il capitalismo di mercato, una lezione da imparare a memoria. Steve Jobs è l´imprenditore che ha creato Apple dal nulla, a 21 anni, con un amico di 26. Da noi è un giovane imprenditore chi lavora nell´azienda dal padre, o l´eredita. Jobs non si è laureato: ha abbandonato gli studi per fondare la Apple. Da noi si passano sei anni a studiare economia all´università con l´aspirazione di andare a lavorare per qualcuno: meglio se una banca, McKinsey, o lo studio del padre. Mettersi in proprio è un incubo, non un sogno. Jobs ha cominciato l´attività in un garage, pagando i fornitori con il credito ottenuto grazie a un ordine di computer che esistevano solo sulla carta. Da noi, nessuno fa credito a un´idea; il garage non avrebbe rispettato le norme di sicurezza; e non ci sarebbero stati i soldi per il commercialista, notaio e Camera di Commercio.
Jobs ha portato la Apple in Borsa nel 1980, appena quattro anni dopo la fondazione, per crescere. Da noi si colloca in Borsa la quota di minoranza di un´azienda matura, per fare cassa. La quotazione di Apple ha permesso al venture capital, che aveva creduto nel progetto, di approfittare di un momento di “euforia irrazionale” dei mercati (per l´arrivo della deregulation di Ronald Regan). La finanza genera bolle che fanno danni quando scoppiano, ma aprono anche la prospettiva di grandi profitti senza i quali non ci sarebbe l´incentivo a finanziare gli investimenti rischiosi dai quali nascono le aziende come la Apple. Da noi nessuno rischia nel venture capital. E il private equity investe in aziende mature, capaci di generare il cash flow con cui pagare le banche. Così, da noi, le bolle fanno solo i danni; ma non creano le nuove imprese.
Nel 1985, Jobs è stato estromesso dalla Apple. Per comandare in azienda non basta averla fondata: bisogna dimostrare agli azionisti di essere sempre i più bravi. Il vero capitalismo è meritocratico; il merito non ammette gratitudine o corsie preferenziali. E lo si conquista coi risultati, non con la buona stampa. Jobs è stato richiamato alla guida della Apple nel 1997: senza di lui, la società era cresciuta in media dell´11%; col suo ritorno, la crescita è quasi raddoppiata. Da noi, meglio essere “figli di”, o “amici di”. Cacciato dalla Apple, Jobs ha creato due società: la Next, fallita perché troppo innovativa; e la Pixar, ceduta alla Disney per 8 miliardi. Da noi, coi soldi della Apple, Jobs avrebbe fatto il finanziere, acquisendo partecipazioni, o investito in immobili.
Jobs comandava in Apple con lo 0,6% del capitale. Una fetta minuscola di una torta gigantesca. Da noi si comanda perché si ha il controllo; preferendo una grande fetta di una torta che, per questa ragione, rimane piccola. In quanto azionista, Jobs rinunciava a qualsiasi compenso da amministratore delegato. Da noi gli azionisti, anche se di controllo, si pagano lauti stipendi, stock option e benefit aziendali. In Apple ci sono 7 consiglieri. Da noi, spesso non ne bastano 15; e per accontentare tutti, a volte ci vuole il “duale”.
La Apple oggi vale 360 miliardi, quasi l´80% di tutta Piazza Affari o il Pil dell´Argentina. Ma i suoi quattro top manager hanno in media uno stipendio di 530 mila euro, più 560 di bonus garantito; da noi, roba da dirigente bancario. Il vero bonus milionario è pagato solo in azioni, e in base ai risultati: ai quattro sono andati 146 milioni nel 2010; avendo Apple realizzato 14 miliardi di utili. Nessuno si scandalizza. Anzi. La Apple delocalizza ed esternalizza la produzione in Asia e in Paesi a bassa fiscalità. Da noi verrebbe accusata di scarso senso sociale.
Il principale azionista (col 5%) è un fondo americano; ma se fosse cinese o di Abu Dhabi nessuno invocherebbe la difesa dell´”americanità”. Apple opera in un settore innovativo, tecnologico, e altamente concorrenziale; ma per quanto “strategica” non ha mai pensato a chiedere il sostegno dello Stato. Se la Apple sbaglia, fallisce perché, come ha detto Jobs, «la morte è la più geniale invenzione della vita: spazza via il vecchio per far posto al nuovo».
Un´Apple è possibile nel capitalismo di mercato americano. Da noi no.

 
 

 

Il (solito) disco per l’estate
di Pieralvise Zorzi
LA RIFLESSIONE

Il Gazzettino, Venerdì 5 Agosto 2011,
Mi provoca un amico veneziano: scrivi sul misterioso progetto del nuovo Ponte dell’Accademia e sull’ancora più misterioso sponsor. Rispondo che non ho intenzione di entrare nella solita polemica veneziana magari citando il solito Calatrava. 
      Allora lui: perché invece non scrivi sul turismo? Venezia assediata dai foresti! Rispondo che anche qui la polemica è trita e ritrita. Ottimo, mi fa, scrivi sul Fontego. Ottimo cosa, gli rispondo; la solita polemica su Benetton? 
      Un po’ deluso mi propone la Caserma Manin. Taccio. Insiste. Le mega affissioni? La defunta Mondadori? I social networks? Dai, almeno le grandi navi!! Lascio partire un lungo sospiro per chiudere la conversazione. Lui però disperatamente rilancia: ma almeno i vu’ cumprà!! Almeno il decoro, Imob, la gente a torso nudo! 
      Nel silenzio gonfio di presagi che segue mi rendo conto con orrore che manca solo il lampione della Dogana per completare la hit parade delle polemiche di e su Venezia. Con la differenza che le canzoni della hit parade cambiano, le polemiche veneziane sono sempre le stesse. 
      E scusate se ne ho dimenticata qualcuna: la gamma è vasta. Si dirà: meno male, la città è viva, reattiva. Poi però non succede granché. La macchina che potrebbe e dovrebbe mettere in moto le cose e sfrondare dall’elenco qualche argomento è pachidermica, bradisismica, invischiata tra mille tentacoli e peduncoli e aderenze che frenano ogni migliore intenzione, confermando che di esse è lastricata la via dell’inferno. 
      Ma quale inferno, mi apostrofa l’amico veneziano. Venezia ha una qualità della vita altissima, è il massimo polo europeo dell’Arte Contemporanea, entrano gli sponsor, si fanno i restauri, pensa positivo. Che fai, gli rispondo, entri in polemica con te stesso? Stavolta tace lui. Per carità, non ho nulla contro la polemica, massimo prodotto di Venezia. A patto però che produca a sua volta qualcosa. Un cambiamento. Una svolta. 
      Facciamo parlare gli altri, di noi. Con nuova ammirazione. Ecco, bravo, mi fa l’amico. Hai visto che bello il Redentore quest’anno? Meglio dell’anno scorso, che ne dici? Taccio. Hai visto mai che coi fuochi si riaccenda un’altra polemica.
 

 
IVESER

“Un secolo di carta”, Venezia raccontata in 1820 giornali

Quotidiani, bollettini di parrocchia, fogli politici e sindacali, giornalini scolastici: tutto ora a portata di click grazie all’importante ricerca effettuata dall’Istituto veneziano per la storia della resistenza e della società contemporanea

 

VENEZIA. «Diffidare delle raccomandazioni degli impiegati negli alberghi per gli acquisti. Diffidare assolutamente dei gondolieri (...). Sulla piazza San Marco non vi sono che agenti interessati alle case camorristiche (frutto di interessi, ndr)e percepiscono il 20% sulle vendite. Negli stabilimenti domandate la fattura con origine e natura degli oggetti acquistati. Assicuratevi che i merletti spacciati per veneziani sieno veneziani». Così si legge nel “Messaggio ai forestieri” apparso su “Venice News”, settimanale in lingua inglese per turisti inglesi e americani. Attenzione alla data: è il 24 maggio 1888.

È questo uno dei 1820 giornali, periodici, bollettini, almanacchi, fogli pubblicati a Venezia tra il 1866 e il 1969: stampe anarchiche e fasciste, di cronaca o di parrocchia, di storia o bricolage, vissute il volgere di un solo numero o dall’esistenza più che secolare. Quotidiani, settimanali “rossi” e cattolici, mensili di categoria, bollettini sindacali, ora catalogati, spesso ri-scoperti, seguiti nei loro spostamenti di sede e tipografia, nei cambiamenti di testata e corpo redazionale, grazie al progetto “Un secolo di carta: repertorio analitico della stampa periodica veneziana 1866-1969”, realizzato dall’Istituto veneziano per la storia della resistenza e della società contemporanea, con il patrocinio di Comune e Ordine dei giornalisti.

Una ricerca improba - soprattutto per la mancanza di fondi - che solo il piacere “folle” della voglia di sapere è riuscito a portare in porto e che ora è un sito, www.unsecolodicartavenezia.it, dove chiunque può rintracciare la scheda di presentazione di ognuna di queste testate, le foto di copertina, stralci di editoriale: un click per ricerca storica o per il piacere di perdersi in un mare di carta che racconta una città viva, ricca di idee e voglia di comunicarle. Un’impresa decennale che ha visto la luce grazie alla caparbia curiosità storica del direttore dell’Iveser, Marco Borghi, e dello staff di 18 ricercatori - spesso volontari - ad onta delle poche risorse disponibili, avendo potuto contare solo su un contribuito iniziale della Fondazione Cassa di Risparmio.

«Un lavoro che rappresenta la società veneziana», spiega lo storico Mario Isnenghi, «man mano che il tempo passa, i giornali diventano storia: c'erano 7 quotidiani nella sola Venezia a fine Ottocento. Non è detto che ce la dicano giusta: la storia non si basa solo sui giornali, ma questa ricerca porta tantissimi nomi, date, luoghi, sedi, tipografie. Questo studio analitico è anche autocoscienza collettiva, storia di gruppi che si associano. Non tutti questi giornali avevano dei lettori, centinaia i numeri unici, ma è città». «Eravamo partiti pensando di censire 6-700 testate e ne abbiamo scoperte 1820», racconta Borghi, «pensavamo di fermaci al 1945, ma sarebbe stata esclusa la terraferma: così anche Mestre e Porto Marghera hanno ritrovato i loro bollettini, i giornali operai e studenteschi».

Chicca finale, tra le mille che si possono scoprire nel sito: l’ “Avanguardia” giornale del Partito popolare, apre il suo primo numero con un editoriale: “L’Arsenale di Venezia ai Veneziani”. Era il 1919: è cronaca di questi giorni.

 
di Roberta De Rossi La Nuova Venezia 4 12 2012

 

 

 

 

 

 

 

 

: penzo.gilberto