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Chirignago piazza San Giorgio.

Muffa, scritte con lo spray e crepe Nel degrado il porticato in piazza

di Maurizio Toso

CHIRIGNAGO. Brutto e poco attrezzato lo è sempre stato. Ora il porticato a fianco del municipio di piazza San Giorgio, quello che è stato battezzato in vari modi tra i quali «catafalco» e «mostro», è anche sporco e bisognoso di una radicale manutenzione, operazione che per ragioni di competenza stradale tocca al Comune.  Il bello, anzi il brutto visto il caso, è che da quando l'opera è stata inaugurata una decina di anni fa di fatto non si è mai messo mano al porticato, che in più punti presenta crepe e screpolature e tracce di muffa verdastra. Dove non arrivano madre natura e il passare del tempo, poi, completa l'opera la maleducazione di quanti hanno usato i muri come una sorta di grande quaderno per gli appunti, utilissimo per ricoprire di insulti alcuni malcapitati. Il quadro, poi, è reso ancora più insopportabile dalle condizioni delle piante che si trovano nella parte superiore e che necessiterebbero di cure. La questione dovrebbe essere affrontata tra breve da Municipalità di Chirignago-Zelarino, che si riunisce a due passi dal «catafalco» ma non ha titoli per intervenire, e Comune, che controllando la Miranese può invece attuare la manutenzione. Il giro di controllo sul territorio effettuato lunedì pomeriggio dall'assessore ai Lavori pubblici Alessandro Maggioni a Chirignago-Zelarino, infatti, è stata l'occasione per un primo scambio di opinioni con il presidente della Municipalità Maurizio Enzo. Ora resta da capire in primis quanto costerà l'operazione di ripulitura e successivamente come procedere in futuro. Il rischio, infatti, è che una volta cancellate le scritte e rimesso in sesto quello che, formalmente, è considerato un monumento cittadino, poco dopo le pareti vengano nuovamente insozzate. «Si tratta di un'opera che al tempo probabilmente è stata poco condivisa in fase di realizzazione con i cittadini», spiega Maurizio Enzo, «ora però la sua manutenzione deve essere comunque garantita». Va detto che le polemiche sul porticato e in generale sulla risistemazione dell'area di piazza San Giorgio non si sono mai spente, alimentate anche dallo stato di conservazione delle opere. Le stesse i cui progetti, depositati in quella che un tempo era la sede del Quartiere, furono di fatto ignorati prima dell'inizio dei lavori da buona parte dei cittadini.  Il «mostro» di piazza San Giorgio è stato più volte contestato da cittadini e associazioni fin dall'inaugurazione. Il progetto, degli architetti Cappai e Mainardis, nel disegno vuole riprodurre in modo speculare gli archi e la barchessa della villa sull'altro lato della Miranese.
 
 
 
 
 
Passerella (stabile) per handicappati, canal Vena Chioggia
Passerella per handicappati, canal Vena Chioggia

 

 
Marghera Via Vergottini
 
Casa a Castello Venezia
 
 
da: http://www.lostraniero.net/archivio-2013/149-febbraio-2013-n-152/787-architettura-che-farne.html

 Architettura, che farne

DI GIACOMO BORELLA   

 MARTEDÌ 29 GENNAIO 2013 12:20

 Quando hanno cominciato le città, le strade, le case, a essere così brutte, tristi, antipatiche verso le persone e il pianeta? Più o meno quando hanno cominciato a essere costruite da chi aveva ricevuto un’educazione apposita, formalizzata e istituzionalizzata, per imparare a costruirle. Cioè quando i loro costruttori hanno smesso di imparare a farle facendole. Chiaro che, più o meno contemporaneamente, si sono presentati via via sulla scena alcuni fattori di trasformazione non proprio da poco, che hanno contribuito a complicare parecchio le cose: industrializzazione, esplosione demografica, società di massa, automobile, televisione... Eppure, penso che anche in presenza di molti di questi ultimi fattori di radicale trasformazione, laddove sono sopravvissute forme di costruzione non formalmente insegnate – in genere in contesti di povertà, ma non solo – seppure con conflitti, attriti e anacronismi, si sono continuate qua e là ad avere architetture e parti di città meno disumane. L’insegnamento impartito formalmente, astrattamente, tende a staccare l’architettura dalle sue radici terrestri, gravitazionali, corporee, somatiche, a sradicarla dalla vita quotidiana e dall’ambiente, atrofizzando le facoltà intuitive e pratiche dei futuri costruttori, che vengono spinti a rimuovere le proprie competenze ed esperienze vive di abitanti, le proprie capacità di situarsi nell’ambiente e di interagire con esso e con i suoi limiti.

 Si può osservare anche da questa particolare angolatura come l’architettura e la città del Novecento, almeno laddove il cosiddetto sviluppo si dispiega con più forza, e certo portando a maturazione un processo iniziato nei secoli precedenti, in larga parte si pongono con l’ambiente in un rapporto di sopraffazione, eludendone i limiti per mezzo della tecnologia. Man mano che le possibilità tecniche lo consentono, quella che si stabilisce lungo il Novecento è un’architettura che sembra volersi auto-esiliare dal creato e dalla sua infinita varietà, cancellando ogni rapporto di reciprocità con esso. Le costruzioni ambiscono ad affrancarsi dal suolo su cui poggiano, cercando di realizzare una sorta di sospensione aerea, sia figurativa che strutturale, che le libera dalla gravitazione terrestre. In questo modo ci si sbarazza in un sol colpo del dialogo tra forza di gravità e levitazione che per millenni ha attraversato l’architettura.

 Ciò si realizza con l’impiego di tecniche e materiali che non sono più quelli offerti dal contesto specifico e dall’ambiente vicino, ma piuttosto ricorrendo a un’unica combinazione delocalizzata di materiali – cemento e ferro – indipendente dalla dimensione locale. Ma se ciò è almeno in parte spiegabile con la necessità di approvvigionare grandi quantità di materiali per fronteggiare periodi di massiccia inurbazione, è molto più difficile comprendere, se non riferendolo direttamente al delirio di onnipotenza moderno e al suo autolesionismo, un secondo aspetto di questa volontà dell’architettura di esiliarsi dal creato, ancora più importante: il suo volersi alienare da ogni contesto climatico e meteorologico specifico. Nell’architettura che ha costruito per millenni l’habitat umano, i modi concreti con cui le parti degli edifici si disponevano erano risposte necessarie e spesso straordinariamente inventive a fattori climatici specifici: le forme dei tetti nascevano in rapporto alla frequenza delle piogge, all’intensità delle nevicate, o, all’opposto, alla scarsità delle precipitazioni (e quindi alla necessità di convogliare e raccogliere le preziose acque piovane) o addirittura alla loro totale assenza (come per esempio nella regione di Lima, in Perù, dove non piove mai).

 Così per la forma e l’orientamento delle costruzioni stesse, la dimensione delle loro finestre, lo spessore e composizione dei muri, eccetera, in rapporto alla necessità di proteggersi dalla radiazione solare o al contrario di esporsi il più possibile a essa per guadagnarne il massimo di calore; lo stesso per quanto riguarda la luce o il vento. Spesso introducendo dispositivi a volte elementari (come le persiane), a volte complessi (come i camini a vento pakistani), per poter fare entrambe le cose in stagioni diverse. E così per una infinità di altri fattori: l’energia termica immagazzinata nel sottosuolo (le abitazione scavate sottoterra dal Nord Africa alla Cina), l’uso della vegetazione come elemento di mitigazione, schermatura o barriera, fino alla localizzazione stessa degli edifici in rapporto a situazioni microclimatiche propizie. Tutto ciò, va precisato, fuori da ogni rigido meccanicismo nel rapporto tra causa ambientale e risposta architettonica e, ovviamente, mescolato con una infinità di altri fattori dei tipi più svariati, dall’astronomia alla fisiologia. In questo contesto, il ricorso a consumi di risorse energetiche per il riscaldamento (legno, carbone, sterco essiccato eccetera) era limitata, per necessità, alla sola parte mancante, molto differente a seconda dei climi, che l’intelligenza e cura del dispositivo architettonico non poteva raggiungere da sé.

L’architettura “insegnata” che si afferma nel Novecento cerca di sostituire a questa trama di relazioni di reciprocità e di fitto interscambio con il creato un dispositivo neutro, programmaticamente dis-orientato e de-localizzato, il più possibile standardizzato, al quale impone un clima artificiale. In questo modo esso raggiunge la libertà da ogni vincolo con la propria porzione di mondo terreno, al prezzo della dipendenza costante dai dispositivi tecnologici e del consumo continuo di risorse: la misura della sua modernità ed “efficienza” sta nella profondità con la quale è riuscito a sradicare i suoi legami di reciprocità con il creato. Ora è libero di occultare ogni segno che rimandi alla condizione terrestre, ogni manufatto che testimoni dell’esistenza del sole e della pioggia, rimuovere persiane, tetti e grondaie, smaterializzare muri e sostituirli con vetrate continue, a Mosca come a Nairobi.

 Un mese fa ero a Quito, in Ecuador, a tremila metri sulle Ande, una città con un clima così dolce e variabile per tutto l’anno che non solo le case, ma neppure i musei hanno né riscaldamento né aria condizionata. Eppure, perfino a Quito, l’architettura cosiddetta moderna, quella delle banche e dei grandi alberghi, per poter essere completamente vetrata, deve essere fornita di impianti di climatizzazione forzata: come una persona attaccata a un respiratore artificiale, senza il quale non potrebbe vivere.
Ricusando la forza di gravità, staccandosi dal suolo e dai luoghi, affrancandosi dal clima terrestre, l’architettura “insegnata” del Novecento, rotti i ponti con il creato, è libera di essere pura immagine, pura forma senza corpo, un “fantasma di mondo”, come Günther Anders chiamava le immagini senza corpo della televisione: “ormai viviamo in un mondo per il quale non hanno valore il ‘mondo’ e l’esperienza del mondo, ma il fantasma del mondo e il consumo di fantasmi”1 scriveva nella prima pagina di L’uomo è antiquato quasi mezzo secolo fa.
Ma veniamo all’oggi: è cambiata in qualcosa l’architettura contemporanea rispetto a quella della modernità storica alla quale abbiamo accennato finora, in questi ultimi decenni in cui l’“apocalisse ambientale” da tema riservato a poche Cassandre è diventato genere di successo sulle prime pagine dei giornali? Sostanzialmente no, almeno per quanto riguarda l’architettura dello show che domina la scena mediatica e le università. Ciò che è veramente cambiato è che la stessa architettura-fantasma – che con ulteriori iniezioni di tecnologia, modellazione digitale, calcolo parametrico..., nel frattempo è diventata architettura-zombie – ora si è improvvisamente scoperta ecologica, come per magia, senza cambiare assolutamente in nulla.

 Quando va bene, sono gli esperti di risparmio energetico, impiantisti e fisici tecnici che sono stati messi al lavoro per attenuare, attraverso ulteriori aggiunte di tecnologia, i comportamenti profondamente antiecologici di queste architetture, ma solo di quel minimo che serve per soddisfare i parametri di legge, senza poterle modificare neppure in piccola parte nella sostanza. La cosa grottesca è che spesso le normative, oggi, almeno quelle europee, per quanto burocratiche e molto blande, sono più avanzate in senso ecologico della cultura architettonica cosiddetta avanzata!
Vale quindi la pena di ripassare velocemente quanto sembrerebbe totalmente scontato.
Gli edifici in cui viviamo – sia durante la loro fase di costruzione, di produzione e trasporto delle componenti e dei materiali, sia soprattutto durante la loro vita, con noi al loro interno, durante la nostra – incidono per una parte immensa sul bilancio ecologico complessivo del pianeta. L’architettura, cioè il modo nel quale costruiamo il nostro ambiente fisico, ha quindi una relazione diretta con i fenomeni di modificazione irreversibile degli equilibri vitali del pianeta che oggi, dopo decenni di negazionismo finanziato dalle corporation petrolifere e automobilistiche e dalle lobby nucleari, anche i più accaniti sviluppisti devono ammettere: sono i nostri contemporanei “cavalieri dell’apocalisse”, dal caos climatico alla contaminazione nucleare, diventati notoriamente molti più di quattro. La minaccia ambientale riguarda oggi, in prospettiva neanche troppo lunga, le condizioni stesse di abitabilità del pianeta. In ciò essa va ad affiancarsi, certo più subdolamente, a un’altra minaccia totale leggermente più vecchia, ma ancora piuttosto giovane e arzilla: la bomba atomica.
 

Günther Anders sulla bomba, e sul radicale salto di qualità in termini concettuali, morali e filosofici imposto dalla sua minaccia: “al posto della domanda-come è subentrata la domanda-se: la domanda se l’umanità continuerà a esistere o meno”.
Di fronte a questo smisurato salto di qualità, Anders fissa alcuni concetti che oggi ci possono essere disperatamente utili anche di fronte alla minaccia ambientale annunciata. Il dislivello prometeico è la differenza tra la capacità umana di inventare nuove tecnologie e la sua effettiva possibilità di comprenderne o percepirne gli effetti: “nel sentire, siamo inferiori a noi stessi”. Da qui il concetto che, rispetto alla propria tecnica, “l’uomo è antiquato”. La vergogna prometeica è invece l’imbarazzo dell’uomo del nostro tempo per il fatto di non essere perfetto come gli apparecchi che ha creato, per non essere esso stesso una macchina: è la migliore spiegazione dell’architettura che si vergogna della sua “terrestrità”, che ripudia il creato con sempre maggiore accanimento. Il dislivello prometeico è anche “la ragione principale della nostra cecità all’Apocalisse”, insieme alla nostra fiducia cieca nel progresso e nella tecnologia. Di fronte alla dismisura della minaccia, la nostra epoca è caratterizzata dalla incapacità di provare angoscia: “paragonato al quantitativo di angoscia che sarebbe confacente, che dovremmo realmente provare, siamo semplicemente degli analfabeti dell’angoscia. (...) Ciò che ci manca soprattutto è la capacità di sentire l’angoscia adeguata, quel contributo di angoscia che dovremmo fornire se vogliamo liberarci realmente dal pericolo in cui versiamo...”2. Una “capacità di sentire l’angoscia” che richiama alla mente quella “capacità di soffrire” su cui scriverà Heinrich Böll più tardi, nei suoi ultimi anni3.


La grande architettura “insegnata” di oggi è un’architettura fossile. Con due significati distinti: in senso metaforico, è la traccia senza vita dell’architettura che ha dominato nel secolo scorso i paesi sovrasviluppati, la parodia della sua fiducia cieca nella tecnologia (qualsiasi essa sia), nella crescita, nell’infinita accumulazione del denaro e nella disponibilità infinita delle risorse. In senso letterale, perché la sua vuota onnipotenza formale, la sua inconsistenza corporea, è fondata su un consumo smisurato di combustibili fossili o atomici.
L’attiva partecipazione di questa architettura fossile alla distruzione ambientale non è un incidente di percorso, ovviabile con un’ulteriore aggiunta tecnologica, ma l’effetto coerente dei suoi fondamenti programmatici.
Se c’è una qualche minima speranza di ritrovare di nuovo una piccola architettura umana, sicuramente post-fossile, certo un’architettura minore e minoritaria (e dobbiamo saperne trovare i segni in giro per il mondo, e ce ne sono), credo dovrà affrontare due compiti, uno triste e l’altro allegro:
1) risalire la china del nostro “analfabetismo dell’angoscia”, ricercare la “capacità di sentire l’angoscia adeguata” al salto di qualità che la minaccia ambientale rappresenta, tenerla con sé e renderla operativa quando si lavora sui temi dell’architettura e della città. è più seria e abitabile un’architettura dell’angoscia, o della “disperazione creativa”, come diceva Colin Ward, piuttosto che l’attuale architettura dello show, con i suoi rendering popolati da fantasmi sorridenti, come se “la vita fosse diventata un modo per passare il tempo”4.
2) ritrovare, pur nello spaesamento delle città e nella dispersione dei luoghi, il senso di appartenenza al creato. Merleau-Ponty, nelle sue conversazioni radiofoniche del 1948, parla in modo toccante della ricerca di Gaston Bachelard sui quattro elementi classici: aria, acqua, fuoco, terra. In essa, ciascuno di questi elementi è “come una patria per ogni uomo, (…) il sacramento naturale che gli arreca forza e felicità”5. Da qui, ricercare malgrado tutto un’architettura allegra, che riconosce la terra come dono, la manutiene e ne raccoglie i frutti. Un’architettura dei sensi e del limite, che come quella anonima pre-moderna, ma senza travestimenti neotradizionalisti, sia come una canzone che celebra il creato.

Note
1 Günther Anders, L’uomo è antiquato, 1. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri 2003.
2 Ivi (questa e tutte le citazioni precedenti).
3 Heinrich Böll, La capacità di soffrire, Studio Tesi 1990.
4 Günther Anders, L’uomo è antiquato, op.cit.
5 Maurice Merleau-Ponty, Conversazioni, SE 2002.

 Giacomo Borella

 
vedi anche: Il corriere delle Sera

L' ESTRO DEGLI ARCHITETTI RIVOLUZIONA L' ARREDO DEI CENTRI URBANI. MA IL CITTADINO SPESSO NON CAPISCE PERCHÉ, E SI RIBELLA

Piramidi, panchine nere, archi d' acciaio: le piazze più pazze d' Italia

 

 

Vista a Mestre

 

Camini
 

 

vista a Malamocco

 

Balconi, Chioggia

 

Edicola e lampione, Piazza Ferretto Mestre
 

 

Inferriate a lamelle, Murano
 

 

Traliccio per l'apparecchiatura di controllo velocità a Murano Colonna
 

 

 


 

Passerella apribile, Chioggia
 
Ponte apribile a Chioggia

 

 

 

 

 

 

: penzo.gilberto