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 Artigiani, maestri d'ascia e lavori "manuali"

 
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  Non fa rumore la morte dell'artigianato artistico
 
 

Marche L' arte perduta delle botteghe Giampaolo Visetti 20 gennaio 2009

   
   
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

Dedichiamo questa pagina a riflessioni e citazioni su: artigiani, maestri d'ascia e in generale ai quelli che svolgono i mestieri a torto definiti "manuali". 
 

Marche L'arte perduta delle botteghe

Arrivandoci con il buio può essere che la bottega di un vasaio soffi questa sera un silenzio ostinato, come un moribondo. Le argille, fradice, riposano a un braccio dalla ruota. I legni, tagliati, asciugano davanti al forno. Anche l' aria è riposta, quasi fosse per sempre. I cocci, ordinati nelle officine affumicate e fredde, suggeriscono però il significato strano e vivo del caos. Si resta scossi, inutile negarlo, dalla loro inattesa prepotenza. Una falla incrina la sicurezza di visitare una catacomba dell' operosità, di essere perduti nella nostalgia di una romantica menzogna, o arret rati in un lembo estremo di preistoria. Perché i catini cotti dei Bozzi, a Montottone, sono fatti con le mani. Sono qualcosa in sé, diversi nell' unica bellezza difettosa e si possono toccare. Quando l' inverno sarà stanco, si spingeranno nei mercati che rianimano le piazze tradite di tante città vuote. È in questa strada delle Marche, dimenticata anche dentro il borgo, che cresce il cambiamento più profondo, e più spaventoso, dell' Italia in declino. Una civiltà esaurita dall' accelerazione del consumo, smarrita nelle leggi del suo controllo, cerca di ritrovare il passo proprio del valore, l' armonia forte della sua cura. Solo questo, lo sappiamo, può salvare la nostra angusta terra incompleta. Il dramma è che il potere di rifondere la perfezione originale delle mani con la creatività derivata della mente, si scopre pressoché estinto. "Contro questa crisi - dice il sociologo Carlo Carboni indossando un cappotto del 1948 - servirebbe quanto, purtroppo, è stato distrutto: le cose fatte bene". Si riferisce al più misterioso dei segreti italiani: la liquidazione culturale e umana dei mestieri artigianali, aristocrazia storica del lavoro, e il suo finto recupero sotto forma di parodìa kitsch. Le Marche, se pure irriconoscibili dopo trent' anni, restano la regione più artigiana del Paese e d' Europa. Quattro persone su dieci lavorano in una delle 53 mila botteghe seminate tra le colline, o ammassate contro la spiaggia dell' Adriatico. Nove laboratori su dieci non superano i tre dipendenti. Dietro la statistica, che glorifica l' eccellenza manifatturiera, si nasconde però l' agonìa che elegge il "Veneto dell' Italia centrale", meno calvinista e legato anzi all' umanesimo, a impietoso specchio della nazione. Negli ultimi due anni le Marche sono il territorio che ha assistito al più massiccio esodo dei figli dalle botteghe dei padri, alla più disperata delle migrazioni aziendali, alla chiusura più travolgente dei laboratori.

L' età media degli artigiani, qui, è di 62 anni. Si tocca quota 65, se si considera il sommerso contributo domestico delle donne. Globalizzazione del mercato e orientalizzazione del prodotto, non spiegano la catastrofe antropologica innescata dal limite di un modello di sviluppo. Perché nel medesimo tempo questa è diventata la regione Ue con il record di stranieri artigiani, di oggetti di lusso esportati all' estero, di officine di riparazione aperte da extracomunitari. «Troppo arricchiti per imparare a usare le mani - dice l' economista Mariangela Paradisi - ma troppo impoveriti per poterci permettere le cose belle fatte a mano. Nel mondo dominato dal Pacifico, e finanziato dal Medio Oriente, stiamo diventando una delle "romanie" continentali: un opificio, con un buon marchio, per conto terzi». Nei borghi dell' interno, dismesse comunità di destino che si distribuivano l' arte di fare stoffe, cappelli, carta, scarpe, piatti, abiti, merletti, pentolami, cesti, tavoli, fisarmoniche, le scelte essenziali restano innescate da un occupazionale equivoco comune. «Otto giovani su dieci - dice lo storico Renato Novelli - abbandonano il mestiere artigianale. Vanno alla Bocconi. La bottega di famiglia, pur redditizia, chiude. Quando i ragazzi tornano, sanno gestire un' industria. Il problema è che non c' è più chi fa qualcosa di cui si debba occuparsi. L' istruzione è una conquista: prendiamo però atto di aver esagerato con il mito accademico di massa. Tutti impiegati, manager, intellettuali, bancari, industriali delocalizzati, oppure operai alla catena di montaggio: in sostanza inutili, se manca chi fa». Troppo logico, si direbbe, per essere vero. Invece, se pure incredibile, è così. A Fabriano l' industria degli elettrodomestici perde diecimila posti di lavoro. È impressionante vagare nei viali deserti delle fabbriche, o nei parcheggi vuoti dei terzisti. La disperazione è spessa, come un mastice che paralizza l' ultimo sogno di ex metalmezzadri folgorati dai "servizi". I pochi maestri cartai cercano invano apprendisti per i loro soffici fogli creati a mano. «Fingiamo di disperarci per la fuga nostrana dei cervelli - dice il cartaio Sandro Tiberi - o per l' invasione straniera delle braccia. Invece sono le mani, il problema dell' Occidente. Le scuole professionali sono state ridotte a centri sociali per chi odia studiare. La politica delle ideologie non ha capito l' errore: e si ostina, cinicamente, a ripeterlo». Il meccanismo, anche nelle Marche, è noto. Miliardi di contributi ai "distretti", artigianali o industriali, ricalcati sui "collegi" elettorali. Finanziamenti a pioggia alle "categorie", plasmate sui «bacini» del consenso. "Impulso" alle infrastrutture, tradotto in "costruzione" di strutture. Sostegni e sgravi dettati dalle quantità di "dipendenti-elettori", piuttosto che dalle qualità di "indipendenti-eleggibili".

Vent' anni di ritardo per proteggere i "territori", mentre l' umanità era già sparsa nelle "reti". Risultato: il culturismo delle "organizzazioni" e l' atrofìa degli "organizzati", il "credito" al capannone e il "debito" alla bottega. Una settimana nelle Marche, che hanno rinunciato al vecchio carattere senza disegnare un nuovo profilo, indica schiettamente la potenza della sbandata italiana. L' artigianato senza artigiani, come l' agricoltura senza contadini, o la spesa senza soldi non si limita a insidiare il benessere. Sconvolge il paesaggio, i suoi colori sfumati, ma pure le persone, con il loro aspetto. «I parenti - dice lo scrittore Claudio Piersanti - non sono più famiglia, come i borghi non sono più comunità. Il cancro dell' artigianato morde nel travolgente deserto sociale, eredità del padrinato politico. Un oggetto fatto a mano si spinge poi ancora più in là, nel sentimento. Comunica la sensazione rara di essere fatto per te, quasi ci fosse qualcuno che ancora si occupa di noi. È qualcosa che ci fa pensare all' amore, come se le mani filtrassero ciò che realmente siamo. Unicità e affettività rivelano il loro insondabile rapporto: dobbiamo riconoscere di aver economicamente sbagliato, nel volercene emancipare». Per capirlo si deve raggiungere Montappone. Viene definita la «capitale internazionale» dei cappelli. Tutti, fino a Massa Fermana, sembrano impegnati nell' intreccio della paglia. Invece il grano per quel gambo speciale non si coltiva più. Pochissimi fanno copricapo. I cappelli «made in Italy» si comprano in Cina, in Corea, nelle Filippine. Si aggiunge un nastro, un fiore, o un invisibile bottone. E si rivendono, legalmente, come gioielli dell' artigianato nazionale. Il prezzo schizza da due e duecento euro. Chi riusciva a fare cento cappelli al giorno, è arrivato a riesportarne quotidianamente ventimila. Fino a quando il «vero-falso», il «cinese-italiano» e il «fatto a mano ma a macchina» non si sono più visti riconoscere un valore. Tutto uguale. «Il calo - dice Serafino Tirabasso - arriva al 70%. E l' Italia, da un paio d' anni, non paga nemmeno più». Un disastro, che spazza via i cappellai rimasti artigiani. «Hanno iniziato a parlare di qualità - dice Lauro Mochi - quando hanno rinunciato ad essa. Ci hanno insegnato che non conta saper fare, ma saper vendere. Abbiamo scoperto che tutto è "fatto a mano", tutto "fatto in casa", tutto ha il "sapore della nonna". Peccato che tutto, invece, sia identico e abbia il medesimo gusto. Non rimpiango un "sapere perduto", ma un "mercato perduto": alla roulette». Sarebbe offensivo, per i marchigiani, confondere tutti nella rapacità di alcuni. Come lasciare il dubbio che l' intera regione, che conserva scorci di rabbioso splendore, si sia consegnata ad un totale imbruttimento. La rinuncia a un' artigianale fedeltà assoluta, all' abbraccio tra testa e mano, saldati dalla cultura e dalla natura, è però un fatto.

Ed è in tale commiato, qui assai più doloroso perché espresso da una storia collettiva, che indugia l' origine dello smarrimento intellettuale dell' identità italiana. Entrando nei laboratori di paese, o nelle industrie che riuniscono maestri attorno all' ossessione per la bellezza artigianale, ci si accorge infatti che consegnarsi al fallimento non è obbligatorio. «La fine di un certo artigianato - dice anzi l' editore Massimo Canalini - può essere una conquista democratica. La divinizzazione retorica della tradizione ha giustificato sacrifici ingiusti: non si può sublimarli, solo perché insidiati da nuovi, e più lontani, sacrifici spietati». Può essere che i rimpianti pubblici celino un dispetto commerciale privato. Ma chi nelle Marche ha deciso di ricominciare a fare qualcosa di buono con le mani, accettando il loro limite, scopre oggi di essere magicamente protetto da una corazza economica più robusta di quanti, per crescere all' infinito, hanno scelto di organizzare il nulla con il computer. «Centinaia di giovani cassintegrate delle imprese hi-tech - dice a Offida la merlettaia Jolanda Ottavi - da mesi mantengono la famiglia facendo il tombolo. Lavorano per l' alta moda, come le nonne per chiesa e nobiltà». Il mercato, stanco del vuoto in serie, recupera così anche certe sartorie di Ascoli Piceno, la tessitoria di Macerata che ha restaurato i telai manuali in legno, i pastifici di Campofilone che hanno saputo negarsi alla grande distribuzione, le botteghe dei ceramisti di Urbania e gli intrecciatori di giunco a Mogliano, le officine dei ramai di Force, o le ebanisterie di Amandola, le falegnamerie di Fratte Rosa, o i camiciai di Camerano. Il Paese della passione, consumato però fino a ridursi a imbarazzante "nicchia del lusso". «Invece le cose fatte bene - dice il fisarmonicaro Giampaolo Bompezzo a Castelfidardo - non sono fatte per i ricchi. Durano a lungo e quando invecchiano si riparano. L' artigiano non è minacciato dall' impoverimento, ma dalla volgarità che criminalizza la sua cultura. Acquistare qualcosa è una necessità individuale, a volte da un sacrificio, non la casualità indotta da una nevrosi imitativa. Siamo i reduci stremati delle rottamazioni e dell' usa e getta. Ma il poco, finalmente, torna ad essere molto. Accontentarsi: lo sente il soffio nuovo, enorme, di questa vecchia parola artigiana?». È il contrario di quanto predica da mesi il potere italiano: la crisi della postmodernità finanziaria non si argina drogando il consumo, ma riaffermando l' etica del prodotto, del prezzo e della spesa. «In Italia solo la mano - dice il sociologo dell' economia Francesco Orazi - è anticiclica. Il problema è che, al grande artigiano italiano, si è lasciata varcare la soglia dell' ultima generazione. I mestieri passano agli immigrati. È normale, ma per imparare occorrono anni: resta da capire se la riartigianalizzazione del lavoro è il rifugio precario dalla crisi occidentale, o l' uscita di sicurezza di un modello planetario esaurito. Il dilagare del falso «fatto a mano» suggerisce che nemmeno il marketing resuscita una civiltà».

Per questo il setaccio dei fallimenti risparmia solo chi si è stancato di blandire la finzione. Andrea e la sua famiglia, a Corridonia, o Silvano, a Sant' Elpidio, sono un esempio mondiale. I loro cognomi sono famosi e non hanno bisogno, qui, di una citazione del marchio. Basti dire che, assieme a pochi altri scarpari marchigiani, sono rimasti alla grande calzoleria manuale, nel luogo dove sono nati. Passava per un suicidio, qualche stagione fa. «Invece - dice Andrea - 35 anni senza un' ora di cassa integrazione. Da bambino tagliavo suole, da solo: da vecchio collaboro con 380 artigiani e nel 2008 ho fatto un fatturato di 41 milioni». Lo stesso percorso di Silvano, pur dentro scelte differenti. «Pagate - dice - rifacendo una cosa anche cento volte. Si cresce solo se c' è tensione per la perfezione. È il disastro incompreso dell' Italia, civile oltre che economico: aver smesso di coltivare l' uso perfetto dei talenti. Senza le mani, anche nella scienza, l' ingegno ha smarrito il suo strumento più sofisticato». Pressoché priva di chi fa, prossima a restare orfana dei suoi «maestri», la «regione più artigiana d' Europa» non è più quella sintetica di Piovene, o la più morbida intravista da Manganelli. È piuttosto l' alba di una nazione che, organizzata per gestire il proprio declino, disperde nell' indifferenza le sue qualità essenziali. «Perché non è l' insufficiente innovazione industriale - dice la scrittrice Silvia Balestra - a spingerci nella marginalità. Un artigiano di Ancona costruisce casolari marchigiani a emissioni zero. Con le mani, grazie alla ricerca, rispetta un' identità, offre lavoro e guadagna bene». Il caso più stupefacente è però quello di "Malleus". La sua bottega di undici amanuensi e miniaturisti, a Recanati, è la sola a poter scrivere in ogni carattere della storia. Tesori di perfezione, testi unici, contesi da università, istituzioni e zecche di stato. «Ci accusavano - dice Enrico Magni - di folclorismo da turisti. I licenziati dalle fabbriche di stampanti laser, adesso si allenano nel "cancellieresco" del Cinquecento. Solo in gennaio, quaranta domande di assunzione». È la lezione che le Marche più attente offrono al Paese: credere nelle mani e nelle cose fatte bene, non abbandonarle alla volgarità di chi le ignora, coinvolgerle nel flusso vasto che conduce nelle dimensioni inesplorate della scoperta più avanzata. «Io ho avuto il conforto di quella sapienza - dice Tonino Guerra - di quella luce e del suo incanto. Non posso ignorare la potenza della scienza, ma non siamo stati capaci di non robotizzarci. Leggo questa insoddisfazione, negli occhi di tutti, questa sconfitta. Ci dobbiamo riflettere. Resto con la mia poesia, di contadini e di artigiani, senza vergogna». Parla e non resiste dall' aggiungere che «è la cultura a rendere gli occhi più belli, come il sole sulla pelle». Poi mostra le mani, aperte, e gli viene da guardare verso Urbino.

GIAMPAOLO VISETTI

 


 

   
: penzo.gilberto